Domino
Alberto Zanchetta
Obiettivo del flâneur è perdere la bussola. L’erranza gli permette di scoprire, quindi di conoscere. Ma se prima amava smarrirsi nella toponomastica delle città, ora preferisce districarsi tra i flussi del World Wide Web. Abbandonati i siti archeologici per i siti virtuali, disertate le normali vie di comunicazione per le connessioni informatiche, l’ambage ha trovato il modo di rispecchiare i percorsi/processi mentali: una rete neurale che simula, che è simile al tessuto urbano.
Dalle sinapsi alla sintesi. La ricerca artistica di Marotta & Russo sonda le infinite possibilità della connected intelligence, una [inter]comunicazione talmente vasta che rischia di contraddirsi o di annullarsi. Tralasciando l’opinabile assetto informativo, Marotta & Russo prestano attenzione a ciò che generalmente sfugge all’occhio, estrapolano cioè le strutture preesistenti, moduli di cui analizzano le combinazioni e le variabili. In questo Grand Tour sono nati gli “Under the Domain Name”, preambolo agli attuali “ObjectKit”.
David Foster Wallace assicura che “la tv fa parte della realtà tanto quanto le Toyota o gli ingorghi. Non possiamo letteralmente immaginare una vita senza televisione [...] non abbiamo memoria di un mondo senza tale definizione”. Per estirpare – definitivamente – il ricordo di un mondo senza il technicolor bisognerà aspettare almeno un paio di altre generazioni. Per allora l’affermazione di Foster Wallace sarà applicabile anche al computer, sancendo l’epocale passaggio di testimone da un medium freddo, passivo, a uno caldo, interattivo, che sublima gli ingorghi reali con quelli on line.
Soltanto i nati nell’ultimo trentennio possono dire di essere cresciuti in compagnia del computer, diventato uno dei tanti elettrodomestici che affollano le nostre case. Coevi a tale avvento, Marotta & Russo hanno assimilato quella che si diceva una definizione “da monitor”, fedeltà che sono riusciti ad ottenere soltanto con l’ultimo ciclo di lavori, ovviando al gap della riproduzione in quadricromia. Infatti, le lambda prints degli “ObjectKit” si servono della gamma dei colori RGB dando l’ultimo, definitivo, scacco ai colori CMYK.
Poiché i caratteri del gioco corrispondono a quelli dell’opera d’arte – libera, separata, [non sempre ma spesso] incerta, regolata, fittizia, con l’unica riserva per la condizione di improduttività – possiamo trovare nella teoria pronunciata da Roger Caillois un raffronto per tipi sia per gli “Under the Domain Name” che per gli “ObjectKit”. Il “mimicry” (il simulacro) dei primi si basa sul travestimento teatrale, sul trucco di presentarsi come città. Nei secondi avvertiamo invece la “ilinx”(la vertigine), lo stordimento, lo smarrimento e la trance del luna park.
In modo evidente l’urban line ha accentuato lo sky line, comune denominatore è l’architettura che, nell’ordine del gioco, diventa meccanica, un ordigno che gli artisti aspirano ricollegarsi alle machines célibataires. Ma se gli “Under the Domain Name” ricreavano dei paesaggi urbani, gli “ObjectKit” li seguono su una falsa riga. Quest’ultimo ciclo di opere si allontana dalle metropoli del XX secolo prefigurando un futuro prossimo venturo. Rientrando nell’ordine della sci-fi, creano un mondo, un universo parallelo (come diorami essi sono una commistione di elementi fantastici e di documenti antropologici) che risponde perfettamente ai crismi della patafisica. Specificità che ci introduce nell’alveo proposto da Michel Carrouges.
Qualunque machine célibataire è innanzitutto una macchina estetica. Nel suo vagabondare il flâneur si limita ad osservarla, non la esperisce veramente, egli si trova solamente di passaggio. Homo sapiens e videns, ne diventa l’interlocutore, interroga l’immagine perché la città oltre che dedalo è anche un oracolo. Icona o emblema? Sfinge o finzione? Nella città-macchina virtuale è possibile digitare la domanda sulla tastiera ma, in attesa del responso, si rimane esclusi dal processo. La “ec-centrica” posizione del flâneur rispecchia lo “stare fuori dal centro”.
Mentre Roberto Russo sottolinea la rispondenza del titolo con le opere, Stefano Marotta porta in evidenza il parallelismo con l’opera di Francis Picabia. In Picabia – lo dichiarava Marc Le Bot – l’immagine e la parola coesistono mantenendosi pur sempre slegate. In Marotta & Russo l’ergon e il logos si rincorrono su piani distinti, simultanei ma differenti. Il loro “aver luogo” tocca i vertici opposti della parabola. Parabola in cui si inscrive la polis, ritenuta mirabile esempio della convergenza tra i due fattori. Nelle immagini costruite dai due artisti il linguaggio è purgato dalle celle di testo. Decostruendo la grafica dei web master, ogni elemento campionato viene ricondotto a qualità primarie: forma e colore. L’idiosincrasia per la parola ne fa dei segni. Dal flusso continuo, frenetico, alienante dell’Information Technology emerge una dimensione mentale in cui coesistono spazi laconici, retini e textures, rapporti armonici tra superfici e vibrazioni luminose. Un afono distillato, epurato cioè dal linguaggio, quindi anche dal suo inventore, l’unico in grado di usarlo e comprenderlo. L’uomo.
La macchina tecnologica è seducente, pericolosa e traditrice. Dal suo celibato deriva un automatismo vittima-carnefice che trasforma l’amore in morte. Per fare ciò sono necessari due emisferi sessuali, il maschile e il femminile, manichea duplicità che nel congegno tende a corrispondere alle parti infero e supero (non si esclude però l’allineamento). Negli “ObjectKit” la linea dell’orizzonte funge da linea di demarcazione tra la struttura edile e le sue fondamenta. I livelli inferiori parafrasano i flussi della rete: radici e rizomi. In ciò che è sotterraneo, sotto-terra, troviamo il cono d’ombra per il corpo dell’uomo. Nell’equazione “Sepolto=Sepolcro” otteniamo conferma alla frase di Adolfo Natalini, “L’architettura è sempre un lapsus tra lapis e lapide”.
Nella cultura moderna la rivoluzione industriale ha generato una metropoli-macchina il cui fine è spodestare la natura dal ruolo di grande Mater. Obiettivo che è scritto nel suo cromosoma, nel suo etimo greco: città-madre. La Terra, grande generatrice, ha capitolato la sua reggenza, usurpata da un’ancella che ha insidiato la regina sin dall’inizio. L’architettura-madre è una donna nella misura in cui Eva era nata dalla costola di Adamo, propaggine andrologica. Per tali motivi la parte maschile è proprio il cittadino, che è al contempo padre-amante-figlio. Il motore che anima tutto il processo si espleta nel desiderio, ovviamente amoroso, di farne parte.
Nell’arte contemporanea quasi più nessuno abita le città, nelle raffigurazioni appare preponderante la visione di un paesaggio che estromette le forme di vita organica. All’amore materno è subentrata la morte. Insanabile cesura, l’elemento femminile porta a compimento un assassinio “abile”, “sapiente”, termini che non per nulla definiscono la figura di Medea. L’inappagante rinuncia alla cooperazione sessuale viene compensata con la cooptazione – l’elemento maschile, rimasto in attesa, è costretto alla persistenza, alla memoria dello spazio, al vissuto. Nella definizione di Gilbert Lascault, si trova in [una] trappola [mortale]. L’inganno ne annulla la complicità.
Qualche anno addietro si faceva un gran parlare di post-human, di qualcosa che ha superato l’uomo nella catena evolutiva e che rischia di sancirne l’estinzione. In ottemperanza all’arte digitale Marotta & Russo professano il neoumanesimo, tentativo di indorare la pillola giacché la nuova-umanità sarà conquistata dalla macchina. Quasi sicuramente i meccanismi che si basano sull’elettricità cercheranno di mettere in crisi gli organismi che si basano sul carbonio, dando inizio a un nuovo Evo.
Alla base di ogni machine célibatarie esiste una fabrica umana. Da lui dipende, e da lui cerca l’emancipazione. Supponiamo allora un’altra teoria. La parte maschile sono proprio gli artisti che creano l’opera [s.f.]; una volta completata, essa non appartiene più loro, possono solo rivendicarne la paternità. I due artisti/artifex/fabbri detengono le chiavi che hanno contribuito a forgiare, borgomastri con in mano le disusate chiavi della città giacché si vedono costretti alla cittadinanza onoraria. Come se non bastasse l’opera d’arte è destinata a sopravvivere ai suoi artefici, tanto più per quella conclamata riproducibilità che l’era della tecnica le attribuisce.
La parte maschile, lo si è visto, soccombe in ogni caso. La tirannia femminile prevarica, uccide la sua controparte. Il gioco della parti amorose è convogliato direttamente nella morte del partner e da qui all’immortalità, alla condizione imperturbabile delle cose. Immutabili, fedeli a se stesse. Indifferenti, senza-differenza. In pratica l’uomo non è altro che una variabile, rischia di mettere in crisi questo equilibrio. Inevitabile la sua eliminazione.
Più che una teoria legata al mito, il rimando impone le sacre scritture. Il logo della “Apple Inc.” è una apple, il frutto preferito di Steve Jobs che nel 1976 aveva fondato l’omonima società in un garage della Silicon Valley. Un frutto associato al peccato, a ciò che è proibito; ironia della sorta, nella società moderna il personal computer non solo rappresenta uno status a portata di tutti ma è addirittura una necessità. L’analogia imposta da Jobs nasce dall’assonanza della parola “byte” con il verbo inglese “bite”, mordere. Nelle maglie del web l’ente attivo smette però di morsicare e finisce per essere fagocitato. Le due ipotesi poc’anzi avanzate giungono a una convergenza nella copula orale, in quella che Norman O. Brown precisa essere una forma di cannibalismo, poiché “combina in un solo atto i due desideri edipici, l’uccisione del genitore e l’incesto [cors.d.C.]. Il mangiare è la forma del sesso. La copula è copula orale; quando gli Aranda si chiedono «Hai mangiato?», intendono dire «Hai fatto l’amore?»”. Incarnazioni di Moloch, internet e l’urbe divorano la popolazione con un piacere che è fisiologico.
Facciamo un passo indietro. Nella Genesi la cacciata dall’Eden è l’esilio dalla natura. Primo tra tutti, Caino intuisce il bisogno di fondare una città. In essa l’Albero della Vita diventa un sicomoro, il suo legno serve infatti da feretro. Inizia così a definirsi la rispondenza tra la metropoli e la necropoli. Tra i fardelli di cui si fa carico l’uomo, l’architettura è una delle colpe più gravi, un’invenzione che va al di là delle regole della natura, un tramite con cui l’individuo realizza se stesso. Per William Morris l’architettura è tutto ciò che sulla Terra è stato trasformato dall’uomo in un prodotto. La storia dell’architettura è la storia dell’uomo, racconto che assorbe il suo protagonista, riducendolo a comprimario, altre volte facendolo scomparire dalla scena.
Manzoni aveva definito il duomo di Milano una “macchina”. Per Marotta & Russo la definizione di un’architettura-macchina si principia nel ludico (lo attestano le animazioni digitali) ma non dimentica d’essere una macchina d’inquisizione: ritiene superfluo l’uomo e lo elimina. Il suo corpo costituisce una variabile che intaccherebbe l’equilibrio. Nel gioco c’è sempre un vinto e un vincitore; tuttavia, anche il vincitore deve ammettere di aver perso perché ottenendo il suo riconoscimento ha portato a compimento il gioco, ne è uscito. Il giocatore smette di essere tale, uccide il suo ruolo. Lo stesso avviene tra l’artista e l’opera, tra il flâneur e il luogo.
I culti primitivi associavano la Terra Madre alla donna, sia per l’evidente capacità di procreare sia pure per la rispondenza anatomica – procace e sinuosa – con la superficie del pianeta. Le nuove Madri, che sono al contempo Città e Macchine, si barricano dietro forme taglienti. Gli “Under The Domain Name” parafrasano il vetro e il cemento, gli “ObjectKit” tendono invece a porsi come allegoria dei metalli siderurgici. In ogni caso l’uomo non può abitare né gli uni né gli altri perché sono paesaggi esenti da rapporti prospettici. Sono figure piane che si originano dalla geometria a 8 bit. Involucri esterni, puramente esornativi.
La scatola d’assemblaggio coincide con il libretto d’istruzioni: il congegno è a vista, bidimensionale, non contiene nulla. Piattezza che deve far ricordare l’immaterialità del virtuale, apparenza d’esistenza. L’uomo non può abitare queste città, è cittadino della rete come del mondo, vi può navigare a condizione di smaterializzare il proprio corpo (è qui che subentra l’avatar, l’alter-ego virtuale). Deve prendere coscienza del fatto che il costruttore è incapace di abitare ciò che ha “architettato”. Misura di tutte le cose, l’uomo è il primo ad assentarsi dal progetto, dall’utopia. Come fossero un parto di Boullée, gli ObjectKit denotano la volontà di progettare, ammettono il progetto come possibile, quasi sicuramente futuribile. Malgrado ciò se ne avverte tutta l’inabi[tabi]lità. Fra progetto e utopia, fra ragione e immaginazione, anche la Città ideale (il celebre dipinto quattrocentesco simbolo della perfezione formale raggiunta dal rinascimento) è vuota. Non è altro che un’idea, un concetto/segno, in essa troviamo metafore e simboli che sono frammenti in attesa d’essere ricomposti.
Impossibili, insolite, inverosimili. Nel celibato dobbiamo ora introdurre un nuovo aggettivo che è anche un interrogativo: sono dunque macchine astratte? Le opere di Marotta & Russo adottano la grammatica della geometria senza allontanarsi dal mondo fenomenico, ad esso intendono semmai ricongiungersi. Negano l’approdo al riduzionismo essendo questo il punto di partenza in cui ravvisare (non rifiutare) i propri referenti. Le geometrie astratte dei due artisti non sono altro che elementi digitali sgravati dal loro ruolo, resi liberi e riassemblati in una dimensione riconoscibile, quella di una realtà cristallizzata dalla sua stessa forma razionale, di calcolo matematico.
Il mondo è un unico, gigantesco, cablaggio. Tra i primi ad averlo suggerito è stato Peter Halley, il quale ammette di “inserire nel mondo ideale dell’arte geometrica una traccia di paesaggio sociale”. Sui prolegomeni del Neo-Geo si fonda l’algebrica icasticità di Marotta & Russo.
Tale permutabilità può essere spiegata grazie ad alcune nozioni formulate dal sociologo Manuel Castells. “La nuova città nasce conseguentemente alla creazione di una nuova struttura sociale, la Società delle Reti, caratteristica dell’Era dell’Informazione. [...] Nell’età dell’informazione stiamo assistendo a una crescente tensione e articolazione tra spazio fisico e spazio dei flussi. Lo spazio dei flussi stabilisce un collegamento elettronico tra luoghi fisicamente separati, creando un network interattivo di relazioni tra attività e individui a prescindere dallo specifico contesto di riferimento. Lo spazio fisico, invece, organizza le esperienze nei limiti della collocazione geografica. Le città moderne vengono contemporaneamente strutturate e destrutturate da queste due logiche contrapposte. La metropoli non si annulla nelle reti virtuali: piuttosto, si trasforma attraverso l’interazione tra comunicazione elettronica e relazioni fisiche, attraverso la combinazione di luogo e network. [...] La nostra esistenza cittadina, come ha giustamente sottolineato Mitchell, è un’e-topia, una nuova realtà di incessante interazione, volontaria e non, con i sistemi di informazione on line, e sempre più in modalità wireless. Lo spazio dei flussi è radicato nello spazio fisico, ma le due logiche sono profondamente diverse: l’esperienza on line e quella materiale hanno caratteristiche proprie. [...] la società on line è una società specifica, e non un sottoprodotto di quella reale, e che la collocazione geografica contribuisce, spesso con esiti insoliti, alla configurazione dei network di comunicazione elettronica. Le comunità virtuali, in quanto reti di individui, stanno trasformando le modalità metropolitane di interazione sociale, senza per questo catapultarci in un fittizio mondo di pixel». In sintesi Castell sostiene che la città del futuro dovrà essere in sinergia con la struttura dinamica di Internet, l’una tenderà a rispecchiare l’altra. Negli ziggurat di Marotta & Russo l’iter viene invertito, la fusione è comunque in corso, in ambo i sensi.
In poco più che tre lustri di vita le information technologies hanno sviluppato, e disciplinato, una nuova identità collettiva. La loro rivoluzione tecnologica/culturale è stata talmente fulminea, lo sviluppo così veloce, continuo, inarrestabile, che potremmo figurarlo come un cantiere in costante evoluzione. Un “cantiere” di cui Marotta & Russo sanno “edificare” tutte le analogie possibili.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
R. Caillois, “I giochi e gli uomini”, Bompiani, Milano 2000.
M. Castells, “La città delle reti”, Marsilio Editore, Venezia 2004.
H. Szeeman [a cura di], “Le macchine celibi”, Electa, Milano 1989.