Contro-circuiti della realtà
Riccardo Caldura
Il foglio elettronico sul quale sto scrivendo è inquadrato da ogni lato da funzioni che offrono una amplissima serie di varianti compositive. Cornici, barre di comandi che possono cambiare in un batter d’occhio aspetto a quello che vengo scrivendo. So poco di informatica, sono un consumer generico, con scarse propensioni per quel che ‘sta dietro’ alla facilità d’uso. Il sistema di scrittura che rappresenta la dimensione quotidiana della pratica di lavoro di una moltitudine sempre crescente di persone, ha subito ormai più di un ventennio fa una radicale trasformazione. Verso la sua immediata visibilità, la sua altrettanto immediata modificabilità, e la sua contemporanea archiviabilità: il primo elaboratore user friendly della Apple, il Macintosh 128k, è del 1984. L’emancipazione dalle iniziali e complesse procedure informatiche necessarie per poter interagire con hardware e software era avvenuta grazie all’estrema efficacia del sistema ad icone e ‘finestre’, sistema molto semplice e immediatamente comprensibile. Appartiene alla storia delle nuove tecnologie l’errore clamoroso compiuto dal management della Xerox che non aveva intuito quanto i loro laboratori venissero predisponendo, e l’aver permesso a Steve Jobs di appropriarsi dell’enorme potenzialità applicativa del sistema ad icone. Ora la ‘mia’ scrivania (come quella di milioni e milioni di altri utenti) si compone di folders e di files, ordinati sullo sfondo di una piccola lavagna luminosa sulla quale i ‘quadratini’, i ‘rettangolini’ delle varie icone sembrano galleggiare sospesi e in attesa di essere agiti da un mouse. La semplicità del disegno geometrico delle icone è di grande efficacia. Rigorosamente bidimensionale costituisce quel che viene definito l’ interfaccia grafica (graphical user interface: GUI in inglese), che ha reso accessibile ad un pubblico vastissimo l’utilizzo del computer. Ma la questione dell’interfaccia grafica’ è molto più pervasiva, e dilata la sfera della mia ‘scrivania’ elettronica, includendovi l’esistenza ‘reale’ e intrecciando quest’ultima di possibili funzioni e comandi operativi svolti grazie a delle ‘icone’.
L’intera città sembra una vastissima scrivania, un desktop, un display sul quale si ordinano le sequenze di icone funzionali al suo uso: la segnaletica stradale, i loghi, i percorsi obbligati. La pervasività, l’ubiquitarietà della tecnica è resa possibile proprio dalla straordinaria efficacia della sua ‘interfaccia grafica’, senza la quale la tecnica sarebbe solo un faticoso dispositivo cieco, privo di ‘finestre’. Un aeroporto, un’autostrada, una stazione ferroviaria, una via di città, la distribuzione delle merci in un grande magazzino, il manuale di istruzione di un prodotto sono realtà possibili, cioè agibili, solo grazie alla qualità e alla precisione delle icone che ne costellano la superficie. In un paese senza ‘icone’ che indichino la funzione degli edifici, in una strada senza segnaletica, ci sentiamo in terra straniera, con quel tipico disagio e inquietudine di chi non è più in grado di decodificare l’ambiente che lo circonda. Come sentiamo ‘anacronistico’ e vagamente incomprensibile che ci venga dato, o che noi si consegni, un foglio ‘scritto a mano’. La realtà nella quale viviamo è una sorta di algoritmo, che viene scomposto in sottoalgoritmi che ne articolano e semplificano la complessità. E un foglio ‘scritto a mano’ sta diventando probabilmente una struttura desueta, inutilmente complessa per chi vive immerso, ne sia o meno cosciente, nell’efficacia computazionale di una onnipresente macchina di Turing.
La pervasiva interfaccia grafica che ci circonda è di matrice geometrica, piana, bidimensionale, semplificata nelle forme e nei colori. Ed esplicita: nel senso che non può dare adito ad equivoci, il sistema è rigorosamente binario: sì/no; norma/infrazione. Non vi sono zone d’ombra nella flatland iconica e algoritmica. Che si è sviluppata con sempre maggior efficacia, insieme al crescere della città e al moltiplicarsi delle funzioni che vi ospita. Fra la funzione di un edificio e la sua rappresentazione pubblica vi deve essere un rapporto il più evidente e meno ambiguo possibile: una officina per riparare le ruote, non può che essere posta in prossimità di un incrocio, e avere ‘incorporata’ nell’edificio stesso l’evidenziazione della sua utilità. La facciata di una tale officina è fatta di cerchi concentrici: come in un progetto elaborato dall’architetto utopista Claude Nicolas Ledoux. Lo sviluppo in ambito artistico della immagine nuova, ‘moderna’ come la definiva Mondriaan, può certo risentire, e gli scritti del pittore olandese lo testimoniano, di un afflato universalistico di matrice teosofica, ma molto più concretamente risente anche dalla sua esperienza della metropoli (prima Parigi, poi New York) e dalle sollecitazioni offerte dalle facciate degli edifici. L’’universale’ si traduce così nella primarietà della griglia e dei colori puri a definire forme bidimensionali estremamente semplici: ‘rettangolini’, ‘quadratini’ che hanno il ritmo (come in “Victory Boogie-Woogie” del 1943-44) dei percorsi, dei circuiti della megalopoli americana.
La concreta efficacia comunicativa del purismo suprematista maleviciano emerge nelle interfacce pubblicitarie per comunicare alla nascente società socialista i nuovi modelli di consumo, elaborate graficamente da Rodschenko, con l’apporto, per gli slogan dei vari prodotti, di Majakovsky. Il ‘geometrico’, il bidimensionale, il primario tendono a diventare elementi di una iconografia funzionale ad amplissima diffusione, e allo stesso tempo si intravede una linea di fuga lungo la quale l’elaborazione artistica si emanciperà progressivamente anche dall’idea di funzionalità. Il piano-colore delle pareti concepite da Theo van Doesburg aspira a liberarsi dall’architettonico, ponendo così le premesse per l’incontro-scontro con il collega architetto Oud. Che significa infatti “trattare lo spazio tridimensionale come la composizione pittorica” se non, rispetto al lavoro dell’architetto, contro-costruire? (1)
L’interfaccia grafica elaborata per rendere il linguaggio informatico a portata di una moltitudine di consumatori sta evolvendo lungo una medesima via di fuga? Astraendo cioè anch’essa dalla sua originaria funzione, contro-costruendo come mostrano i lavori di Marotta&Russo un sistema (dalla città all’oggetto) parallelo? L’autonomia del ‘visivo’ è come se stesse in agguato, e attendesse il ‘momento giusto’ per decostruire la residuale funzione che sopravvive nelle varie interfacce grafiche, ricominciando il gioco: dalla efficacia funzionale di algoritmi risolti iconicamente, alla progressiva autonomia da qualsivoglia funzione operativa, liberando l’icona da ogni referenzialità operativa concreta, ‘reale’.
(E la realtà, lungo questa via di fuga del ‘visivo’ sembra costretta a ribattere colpo su colpo, facendosi essa ‘immagine’, onde poter corrispondere al nuovo livello di astrazione raggiunto dal ‘visivo’. Oppure condannarsi a restare ‘cieca’ come una strada priva di indicazioni, o estranea come un paese composto di edifici senza distinzioni funzionali).
Una pagina web ha qualcosa della facciata di edificio dove ad ogni singolo spazio corrisponda una dimensione visiva e informativa; vi è un zona centrale e un disporsi intorno di elementi la cui funzione è risolta graficamente nello schema bidimensionale della superficie. L’area centrale rappresenta il ‘contenuto’ principale della facciata/pagina web, un contenuto inquadrato, incorniciato dalle altre varie funzioni informative. Se la pagina web venisse svuotata dei contenuti, e ne venisse mantenuto solo l’impianto formale si evidenzierebbe la semplicità bidimensionale e geometrica che la sottende. Impianto formale che nella ricerca di Marotta & Russo è stato utilizzato per contro-costruire una nuova immagine: quella di una ‘città’ generata dalla pure forme primarie che costituivano gli elementi compositivi di pagine web: da qui si origina la sequenza degli “Under the Domain…”. Il contro-costruire artistico inizia ad liberare l’ interfaccia grafica dalla sua funzione. Per generare un nuovo, paradossale e rigoroso urban-scape esclusivamente digitale. Uno urban-scape fatto di elementi tratti dall’ ‘impaginazione’ informatica, composto di elementi tratti dalle varie interfacce grafiche, astratte dal loro specifico ’contenuto’ funzionale e informativo.
Nei lavori della serie successiva a “Under the Domain…” Marotta & Russo hanno incrementato ulteriormente le loro operazioni di decostruzione e ricostruzione di elementi iconici da interfaccia grafica, provenienti dalla sfera della informazione tecnologica, ed evidenziando, fin dal titolo, il loro intento: Objectkit.
Kit, cioè scatola che contiene gli elementi da montare per ottenere un oggetto. Gioco infantile e grande innovazione commerciale che ha reso ogni cliente, e a livello mondiale, un collaboratore di Ikea. Concretizzarsi di intuizioni e progetti bauhausiani, combinando elementi prefabbricati, già pronti, ready-made, per la standardizzazione e diffusione planetaria di prodotti.
L’ultima opera di Marcel Duchamp (Etant donnees, 1946/1966) è stata, per sua esplicita volontà, montata e realizzata dopo la morte dell’artista, sulla base del ‘manuale di istruzioni’ che egli aveva predisposto. Le pareti di un edificio, se considerate neoplasticamente, possono risolversi in sublimazioni cromatiche, in piani privi di peso che si assemblano insieme (si veda, sempre di van Doesburg, il modello della Maison pour artiste, 1923). In ObjectKit gli elementi grafici della sfera della informazione tecnologica liberati dalla loro funzione comunicativa e interattiva tornano ad essere puri elementi compositivi, prefabbricati, grazie ai quali possono essere ricostruiti i nuovi ‘oggetti’ visivi. Privi di corpo, puramente bidimensionali, oggetti-superficie, che hanno qualcosa della fissità di un’immagine totemica, e la sua arcaica, accesa, policromia. La composizione digitale dell’immagine sembra così restituire, imprevedibilmente, qualcosa degli elaborati intarsi delle superfici di oggetti e manufatti prodotti da culture lontanissime dai canoni hi-tech. Oggetti-totem, icone digitali di cui però non è possibile rintracciare una qualche valenza apotropaica, simbolica. Perché il ‘contenuto’ di un’immagine è letteralmente evaporato così come si sono progressivamente smaterializzate le mura di un edificio, così come si possono svuotare e modificare continuamente i contenuti compresi fra le griglie compositive di una pagina web. Non vi è più ‘contenuto’ solo pure immagini astratte e digitalmente ricombinabili all’infinito.
Che vi sia una tensione verso una sempre più articolata strutturazione dell’immagine digitale, cioè che il gioco fra l’immagine e il reale, si venga riproponendo non solo con l’oscillazione del reale verso l’immagine, ma anche al contrario con l’oscillazione dell’immagine (digitale) verso il reale, lo evidenziano bene i due ultimi lavori di Marotta & Russo. Uno dei quali, una videoproiezione, reca l’indicativo titolo di “Timeline”, dove è il tempo dell’immagine che scorre ad indicare il rapporto fra l’esperienza visiva del percorrimento dello spazio urbano e la sua proiezione sintetica nel gioco di componenti geometriche sempre derivate dal codice visivo digitale. La seconda, “Outline” è una articolata installazione a parete che sottolinea la tendenza architettonica e spaziale dei processi compositivi dei due artisti. “Outline” ricorda un impianto a circuito chiuso, ha qualcosa della componentistica e dell’architettura a moduli di un odierno elaboratore di dati e allo stesso tempo richiama visivamente mappe, reti di connessione, cablature che costituiscono la dimensione invisibile quanto concreta di una città innervata dalle tecnologie dei servizi. L’immagine di sintesi proposta da Marotta & Russo in “Outline” anatomizza, decostruisce e ricompone l’idea di connessione e di cablaggio, ne evidenzia il lato visivo. Icona contemporanea della trasmissione di dati e di informazioni. Contro-circuito di una realtà che sembra avere sempre più nelle immagini il suo veicolo e la sua ragion d’essere.
(1)“Contra-costructies: analisi cromatiche del progetto nella sua forma più significante (l’assonometria, astratto-simultanea rappresentazione)”. Cfr. di Sergio Polano “Il colore dello stile. Note sulla neocromoplastica architettonica di De Stijl” in “Mondrian e De Stijl – L’ideale moderno” (pag. 126-128). Olivetti/Electa, Milano 1990.